Autopsia di un’emozione

“La depressione è una condizione raccapricciante, un malessere che ti priva di ogni cosa. Ti sembra di non riuscire più a vivere, hai la mente e il cuore paralizzati dal tuo disagio e nei rari momenti in cui riesci a provare ancora qualcosa è solo perché ti senti morire”.

La depressione è definita il “male del secolo” anche se, in realtà, è una piaga che non ha tempo, non ha età. Ha colpito Egidio, giovane uomo che negli anni cinquanta si è ritrovato rinchiuso in manicomio per “Incapacità di condurre una vita normale” e ha colpito Anna, brillante trentacinquenne che nel nuovo millennio è sprofondata in un abisso profondissimo rischiando di non risalire più.

Un romanzo, due storie che si intrecciano e corrono parallele, distanti nel tempo, ma vicine nel significato e nell’epilogo che infonde speranza e sprona a non arrendersi mai, nonostante il dolore, nonostante il buio che sembra non volersi dissolvere mai.


Lettura coinvolgente, piacevole e scorrevole nonostante il tema trattato.

Un libro che aiuta chi, per esperienza personale, conosce questo tremendo male, ma che può rivelarsi utile anche per chi non ha mai sofferto di depressione, ma ha accanto persone che ne sono vittime.

Due storie avvincenti e non banali che catturano il lettore dalla prima all’ultima pagina .

Un inno alla rinascita.

Un estratto

Egidio

Entrando nello studio del dottor Araldi, per la prima volta dal mio arrivo in ospedale, avvertii una marcata sensazione di soffocamento. L’odore nauseante di fumo misto a lavanda e malcelato sudore, non mi aiutò a sentirmi meglio. Enormi, gonfi, tendaggi di spesso velluto verde, sovrastavano la finestra sullo sfondo. Dalla scrivania, grosso blocco ingombrante di legno scuro, risaliva il fumo di un sigaro spento male, che si propagava in tutta la stanza, arrivando fino ai miei occhi, facendomeli bruciare. Le pareti erano tappezzate di targhe e riconoscimenti e, fra tutte, spiccava un enorme quadro dalla cornice d’oro, su cui si leggeva “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette da qualsiasi causa d’alienazione mentale quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo (L. n. 36/1904)”. Sul pavimento giaceva, in tutta la sua bruttura, un tappeto persiano che contribuiva con le tende, la scrivania e le targhe, a rendere l’ambiente molto più angusto di quanto in realtà non fosse.

«Signor Corsi, si segga, prego, le devo parlare.»

Un cenno del capo del medico e la Barderi, con una riverenza, uscì.

Mi sedetti e rimanemmo soli in quella sorta di antro opprimente.

Il dottor Araldi, direttore del manicomio, era un uomo vicino alla sessantina. Alto, snello, spalle larghe e fianchi stretti. Un bel fisico, forse il risultato di un ragionato e sano regime alimentare unito a costante attività fisica. O forse un dono naturale. Sotto al camice, si intravedeva una camicia inamidata, col colletto stretto da una cravatta d’alta sartoria. Il viso ovale, dai lineamenti perfetti, era rasato con estrema cura. Niente baffi, basette cortissime e capelli color cenere dal taglio ben curato, con la riga a sinistra, tenuta a bada da una dose consistente di brillantina. Sul naso ben delineato, scivolavano sovente gli spessi occhiali dalla montatura di metallo cromato che il medico provvedeva a rimettere a posto con l’indice della mano destra. Occhi azzurri, bocca carnosa e dentatura perfetta, erano valori aggiunti che lo rendevano il sogno proibito di quasi tutte le infermiere dell’istituto.

Si schiarì la voce, avvicinò le grandi mani e unì con eleganza i polpastrelli delle dita, picchiettando i due indici uno contro l’altro, in modo ritmato, portandoseli poi alle labbra, prima di prendere la parola.

«Signor Corsi, si chiederà perché io l’abbia mandata a chiamare» mi guardò dritto negli occhi, cercando di captare ogni mia minima emozione, tentando di interpretare il linguaggio del corpo. Era il suo mestiere, dopo tutto.

«La voglio mettere in guardia» continuò, «in quanto ho saputo che in questi ultimi giorni ha tentato un approccio col signor Mancini e non credo proprio che un eventuale avvicinamento tra voi due possa giovarle.»

Aprì il cassetto della scrivania e ne estrasse un sigaro che accese con movenze teatrali e pompose.

Dopo qualche boccata, riprese: «Vede, signor Corsi, il signor Mancini potrebbe legarsi a lei in maniera… come dire… malsana, innaturale e potrebbe nuocerle. Lei è un paziente così… a modo. Così… posato. E anche ingenuo, a mio parere. Ingenuità mista a fragilità. Caratteristiche che potrebbero renderla vulnerabile dinnanzi a un personaggio pericoloso come il signor Mancini.»

Si alzò, andò alla finestra e scostò la tenda, guardando fuori, dandomi le spalle. Trascorsero alcuni minuti in cui né io né lui dicemmo alcunché. Il silenzio venne rotto dal medico che, voltandosi, riprese la parola: «Da quanto tempo è con noi, signor Corsi? Tre mesi? Dico bene?»

«Sì, signor dottore» la mia voce era un tenue tremolio.

«E quante punizioni ha ricevuto in questo lasso di tempo? Nessuna. Dico bene?»

«Sì, signor dottore.» Se possibile, il tono si era abbassato ulteriormente.

«Bene. Continui così allora» concluse. «Segua la terapia, si fidi di noi e stia alla larga da certa gente. E vedrà che la sua guarigione non tarderà ad arrivare. Insieme alla sua conseguente dimissione. Vada pure.»

«Sì, signor dottore. Arrivederla, signor dottore.» Accompagnai quelle mie ultime parole, quasi inudibili, con un cenno del capo e in modo composto lasciai la stanza.

Tornato nella mia camerata, mi sedetti sulla branda e per la prima volta da quando ero stato ricoverato, piansi, piansi in modo sommesso, a lungo.

Piansi per tutto il dolore che da sempre mi portavo dentro.

Piansi per le enigmatiche parole del dottor Araldi.

Piansi per la mia remissività e la mia incapacità di affrontare le altre persone.

Piansi per la mia famiglia che non vedevo da tre mesi.

Piansi per le notti d’orrore di quand’ero bambino.

Piansi per la mia sorellina, morta di vaiolo a sei anni.

Piansi per l’enorme peso sul petto che sentivo da che avevo ricordo d’essere al mondo, un peso opprimente che mi spingeva in una sofferenza senza senso e senza nome, una sofferenza buia che mi impediva di provare una qualsiasi emozione positiva e mi paralizzava anima e corpo.

Piansi finché ebbi lacrime, piansi fino a che non mi sentii seccare gli occhi e svuotare il cuore.

Anna

«Mi scusi?»

Un debole colpo di tosse tentò di infilarsi nel silenzio che mi circondava.

«Mi scusi?»      

Altro colpo di tosse, più forte e deciso.

Trasalii, confusa. Ero totalmente immersa nel diario. Mi asciugai in fretta le lacrime. Una figura sconosciuta, alta e robusta, si interpose tra me e un cielo ormai rosato. Era quasi il tramonto. Avevo letto sì e no una decina di pagine, ma le ore erano volate perché da ogni riga riaffiorava un ricordo, e ogni ricordo scatenava emozioni così incisive che la lettura era andata molto a rilento.

Tornai al presente e alla persona che aveva attirato la mia attenzione.

Un uomo, sulla cinquantina, mi stava sorridendo con la bocca e con gli occhi; aveva il tipico viso delle persone che, a pelle, ti risultano subito simpatiche per il loro approccio solare e gentile. Con una mano, grande e abbronzata, si ravviò i fini capelli brizzolati e con l’altra mi fece un gesto che io intesi come “tranquilla, sono innocuo”.

«Mi perdoni, non vorrei sembrarle invadente e inopportuno» disse, «ma l’ho vista arrivare in bicicletta dalla ciclabile e suppongo che tornerà per la stessa strada. I lampioni hanno subito un guasto per il temporale di ieri notte e la pista sarà completamente al buio. Volevo solo avvisarla, dato che il tramonto è imminente.»

Utilizzò un tono così premuroso e gentile che mi spiazzò. Certi slanci altruistici non erano così frequenti in una società ormai chiusa a riccio e zuppa di diffidenza, cinismo, paura dell’altro.

«Oh, mamma! La ringrazio!» risposi, riemergendo dalla dimensione parallela in cui il diario mi aveva catapultato. «Non ci fosse stato lei, probabilmente avrei passato la notte qui. Sono proprio sbadata».

Raccolsi in fretta le mie cose, salutai lo sconosciuto, rinnovando i ringraziamenti. Mi avviai di corsa sulla strada del ritorno. Pedalando, non potei fare a meno di rimuginare su quanto avessi letto nel diario: il “Mostro”! Avevo scordato quel mio modo di chiamare la depressione, ovvero ciò che da ormai venti anni, o forse di più, segnava la mia esistenza. Il Mostro era ormai chiuso in gabbia. Ogni tanto faceva capolino la paura che potesse evadere e raggiungere la parte più vulnerabile di me, ma io cercavo di non darle peso.

Quando fui vicina a casa, qualcosa mi fece sorridere. Mi resi conto che per tutto il tragitto i ricordi ruvidi e fastidiosi rievocati dalla lettura del diario erano stati ammorbiditi da un pensiero decisamente più piacevole: stavo piano piano risalendo la china dopo anni trascorsi a strisciare sul fondo di un burrone profondissimo. La risalita la dovevo solo a me stessa. Niente utopie, niente uomini placebo, niente colpi di testa. Ero orgogliosa e fiera di me.