
Elena è una ragazza di sedici anni, raggiante e spensierata nel modo in cui solo a quell’età si può essere. Una mattina, come le altre, la madre entra in camera sua per svegliarla e ciò che vede cambierà la loro vita per sempre. Elena è lì, distesa sul suo letto con gli occhi sbarrati: il suo cervello è cosciente e vigile ma il suo corpo non risponde più. Le diagnosticano un morbo incurabile e degenerativo. Non sa quanto potrà durare, un mese, un anno, dieci anni. Sa solo che “questa cosa”, così come la chiama lei, la strapperà via dalla sua famiglia troppo presto. Non riesce a muovere neanche un muscolo a parte la mano destra; è proprio con questa mano che con caparbietà traccia il confine di quella che è la sua nuova vita, affidando tutta la sua anima alle pagine di un diario.
Un estratto
29 dicembre
Ho provato ad alzarmi e, anche se nella mia testa ero già in piedi, in realtà non mi sono mossa di mezzo centimetro.
Tutte le mattine la stessa cosa. Sono le 8:00, ed ecco che viene la mamma a buttarmi giù dal letto. Prima era sempre una lotta perché non avevo mai voglia di sollevarmi da quel letto così comodo e dalle coperte così calde. Ora darei la vita per farlo.
Ora che vita più non ho.
Ormai è da un mese che per iniziare la giornata devo aspettare che arrivi mia madre a prendermi in braccio, e che mi faccia sedere sulla sedia delle torture. La chiamano in tanti modi: carrozzella, sedia con le rotelle, carrozzina, ma alla fine è il mezzo che dice a tutti: «Ehi, avete visto? Senza queste ruote non potrei nemmeno guardare dalla finestra!»
I primi giorni sono stati duri. Non che ora non lo siano, certo, ma ormai ci sto facendo l’abitudine. Spero soltanto possa essere una tortura breve: i medici hanno detto che potrei durare un mese o qualche anno o tutta la vita, ma io spero che finisca nel più breve tempo possibile. Non è vita, questa. Né per me né per la mia famiglia.
La mia famiglia, che questo mostro ha distrutto e unito. Ma nessuno ha colpe, purtroppo; sarebbe bello trovare il capro espiatorio, ma con la natura non puoi averla vinta.
Andare a letto con le tue gambe e svegliarti al mattino senza riuscire a muovere un muscolo, solo gli occhi che, sbarrati dal terrore, chiedono aiuto e fanno capire che no, non stai giocando.
Non questa volta.
La mano destra è più o meno funzionante. È diventata la mia salvezza perché mi consente di scrivere ciò che penso e di cui ho bisogno. Un lavoraccio in meno per i miei che, almeno, non devono cercare di interpretare i miei capricci; e un lavoraccio in meno anche per me che quando non ho voglia di niente e di nessuno non mi serve altro che scrivere: LASCIATEMI DA SOLA!
E loro capiscono. Non sanno come ci si senta. Non lo sa nessuno. Non lo sanno i dottori e nemmeno il prete che ogni domenica viene per confessarmi perché: «Dio deve averti punito per qualcosa, se ti confessi ti farà guarire.»
E non lo so nemmeno io. Perché è tutto così nuovo e strano. So solo che si sta male.
Prima le mie amiche venivano a casa il sabato alle 16:00 per chiacchierare e poi, dopo qualche ora, iniziavamo i preparativi per la Super Serata, come la chiamavamo. Si usciva alle 22:00 e si tornava all’alba. Regalo dei genitori a una figlia modello con voti migliori di chiunque altro nell’istituto.
Ora le mie amiche vengono sì alle 16:00, ma alle 17:00 vanno già via. Perché per loro la Super Serata esiste ancora… Non hanno mica smesso di farla, loro!